Cosa vedere nella contrada dell’Oca
Quando si dice il tempo vola quando ci si diverte…eccoci qui, ultima puntata delle nostre 17 (anzi 18, con l’introduzione) puntate dedicate ai rioni delle Contrade di Siena. E’ stato un onore guidarvi nella mia città per ammirare un piccolo barlume della meravigliosa bellezza che vi si cela, e della storia millenaria che segna ogni angolo e ogni pietra. E se tutto questo vi ha solleticato a venire/tornare/riscoprire Siena, facendovi ingolosire di nuove scoperte e piccole chicche… beh allora questa nostra iniziativa non è stata inutile! Grazie, in anticipo, da Tuscany Planet e Giuliatourguide. Per adesso, entriamo nel rione dell’Oca, ultimo del terzo di Città, e sveliamo la nostra top three dei MUST SEE in questo, di nuovo ricchissimo, territorio. Per l’ultima volta, andiamo!
Le tre cose da vedere nell’Oca
N°3: Via dei Pittori
lo so, la strada più famosa del rione è indubbiamente via della Galluzza, con quegli archi di sostegno che creano una delle foto più iconiche di Siena, presente in tutti i social e negli album fotografici dei turisti. Ma anche dall’imbocco di questa strada, cioè da via delle Terme, la vista non è niente male, scende fino al Santuario di Santa Caterina e sale subito sopra fino alla fortezza, ops volevo dire la chiesa di San Domenico. Ma la strada, che prende il nome dalle numerosissime botteghe di pittori che qui avevano sede, in realtà ci permette di parlare della famiglia dei Bonsignori, che qui aveva il suo fondaco.
In effetti, la strada era anche detta “Strada del Fondaco dei Bonsignori”, questa famiglia senese che per quasi un secolo, praticamente tutto il 1200, fu il perno della politica fiscale internazionale, tanto da essere chiamati “i Rothshild del Medioevo”. Come loro erano una famiglia di possidenti terrieri (avevano terre e fondi a Monte Antico, Monte Giovi, Bagno Vignoni fra gli altri), che seppe sfruttare il patrimonio familiare per lanciarsi nell’alta finanza: Orlando Bonsignori, personaggio spregiudicato e scaltro, riuscì a diventare nell’arco di pochi anni il campsor (esattore delle tasse) prediletto della corte papale, e allo stesso tempo il detentore del monopolio del commercio del sale per la Repubblica di Siena, fu fiero capitano ghibellino a Montaperti, e ricoprì anche diverse cariche politiche e governative.
Con l’esclusione dal governo, dopo il 1277, delle famiglie magnatizie, ed il passaggio della Repubblica al fronte guelfo, Orlando si rifugiò a Cortona con altre famiglie ghibelline finanziandone i fuoriusciti, ma allo stesso tempo finanziò la campagna di Carlo d’Angiò contro Manfredi. D’altra parte, già ai tempi dell’interdetto papale del 1262, i Bonsignori ne furono esentati: probabilmente Papa Urbano IV non poteva fare a meno dei loro servigi.
La leggendaria “Gran Tavola dei Bonsignori” aveva sedi a Roma, Genova, Parigi, Londra, Marsiglia e nella Champagne, e fino alla morte di Orlando nel 1272 o 1273 resse le sorti della finanza internazionale divenendo creditrice non solo del Papato ma anche delle grandi corti europee. In seguito il figlio Fazio non seppe mantenere i legami tessuti dal padre, e soprattutto a causa del successo crescente dei banchieri fiorentini, la Gran Tavola cominciò la sua parabola discendente, anche se la famiglia non perse mai i propri averi personali: anche dopo il fallimento del 1301 i debiti contratti con le altre famiglie di banchieri e con la corte papale furono saldati ed infatti abbiamo documenti di pagamenti fino alla metà del secolo.
Tra l’altro, la “sede legale” della famiglia era nei sotterranei di San Domenico, dove vennero occultati anche molti documenti legati al fallimento della famiglia senese e di quelle collegate al crack, che colpì duramente tutta l’economia della Repubblica, anticipando e poi inasprendo la crisi di metà ‘300.
N°2: Fontebranda
Citata dai documenti fin dal 1081, forse la fonte monumentale più antica di Siena che ci sia rimasta, fu ampliata un secolo dopo da tale Bellarmino (così ci dice una targa murata all’interno della fonte stessa) mentre quella attuale voltata con archi ogivali risale probabilmente alla metà del ‘200 (1246, realizzata da Maestro Giovanni). Si tratta di una struttura imponente, nel Medioevo conosciuta oltre Siena come una meraviglia architettonica. Come dagli inizi del ‘400 si andava a vedere Fonte Gaia di Jacopo in Piazza del Campo, nei secoli precedenti i visitatori di passaggio a Siena non potevano non scendere a ammirare questa fonte (ricordiamoci che per tutto il ‘200 i “turisti” non avevano né Piazza né Palazzo Pubblico né tanto meno il Duomo come lo conosciamo oggi davanti a cui farsi i selfie).
La fonte, come molte altre dell’epoca, si articolava in tre vasche: la prima era destinata all’uso umano, e qui arrivava direttamente l’acqua del bottino, appunto detto di Fontebranda); poi c’era l’abbeveratoio per gli animali e poi la vasca deputata al lavaggio dei panni, zone appunto divise in tre vasche distinte mentre adesso ce n’è una unica. Il trabocco ulteriore serviva poi ad alimentare opifici di vario genere in cui serviva molta acqua per le varie lavorazioni: macellai, cuoiai, tintori, mulini di vario genere etc. In tempi più recenti, parliamo dell’inizio del ‘900, qui, nell’attuale piazza a lato della fonte, fu realizzata la prima piscina pubblica della città.
La zona di Fontebranda era una delle più ricche d’acqua di Siena, e qui si stabilirono molti lavoratori per esempio dell’Arte della Lana (ma ne parleremo dopo). La fonte si trovava appena all’interno della cerchia muraria, e vi si accedeva appunto dalla Porta di Fontebranda, la stessa da cui oggi sale in città la corsa ciclistica delle Strade Bianche. Essendo fondamentale per la vita e l’economia cittadina, anche questa fu quasi da subito guarnita di postazione di guardia e fortificata, anche se la merlatura attuale è frutto di un restauro di ripristino molto successivo.
Nei documenti si parla di Fonte Branda o Fontebranda, forse da una antica famiglia dei Brandi che abitava nei pressi, ma una tradizione vuole che sia legata a Brenno, mitico re condottiero dei Galli Senoni che ne avrebbe ordinato la costruzione. Viene citata anche da Dante (nel XXX canto dell’Inferno) e dal Boccaccio, anche se per qualche commentatore il Sommo sta parlando di un’altra Fontebranda posta vicino al Castello di Romena, nell’Aretino. Ma a noi piace pensare che da studente sia rimasto colpito da questa imponente costruzione e abbia voluto ricordarla nella sua Commedia.
N°1: La Tira
Ed ecco la nostra ultima medaglia d’oro, questo edificio che a me piace tantissimo. Abbiamo già detto dell’abbondanza d’acqua presente in questa valle, condizione imprescindibile per questo tipo di opifici, ma per raccontarne la storia dobbiamo parlare anche di Santa Caterina, che qui ha il suo santuario perché qui aveva la sua abitazione, anzi qui c’era la casa del padre, Jacopo Benincasa, di professione tintore.
La lavorazione dei panni di lana, che la Repubblica acquistava nei mercati internazionali europei e orientali come grezza, era un ciclo che coinvolgeva diverse tipologie di lavoratori, più o meno qualificati, ma nella maggior parte di queste serviva una grande quantità d’acqua. Per questo l’Arte aveva qui il suo quartier generale (la chiesa era poco sopra, nell’attuale Piazza Indipendenza), e il Comune dette loro in uso esclusivo la Fonte della Ventrice, ora non più esistente, che si trovava nella stessa vallata appena fuori le mura, inoltre le fu concesso un uso privilegiato della porta cittadina, per cui non pagavano dazio nel trasportare dentro e fuori la città materiali e attrezzature necessari per la lavorazione.
Grazie a questi opifici la zona era ben tenuta e abitata da famiglie con un certo agio economico, se non decisamente benestanti. Uno degli edifici necessari per questa lavorazione era la Tira, cioè un grande stanzone coperto inizialmente solo da una tettoia, aperto al vento e al sole, dove i panni pressati venivano stesi ad asciugare e tirati. La tiratura poteva avvenire in orizzontale o in verticale, ma quest’ultima era preferita perché occupava meno spazio e faceva ottenere migliori risultati.
Questo è il tiratoio più antico della città, che ne aveva qui, nei secoli d’oro, altri quattro, e poi almeno altri due, purtroppo non più esistenti, si trovavano nelle zone di Barriera San Lorenzo e di Val Montone; ha mantenuto la sua architettura, riconoscibilissima, anche se adesso fa parte del convento cateriniano ed è in parte ad uso delle suore in parte dedicato all’accoglienza dei visitatori e pellegrini.
Ecco, Santa Caterina: appena dopo la sua canonizzazione, nel 1461, si decise di trasformare l’abitazione familiare in Santuario a Lei dedicato, con modificazioni e aggiunte successive nel tempo che hanno risparmiato, dell’originale edificio trecentesco, il pozzo in fondo a destra del Portico dei Comuni e fortunatamente anche questa struttura, ben visibile dal secondo loggiato del Santuario posto di fronte alla Chiesa del Crocefisso.