Cosa vedere nella contrada del Leocorno
Eccoci per l’ultima contrada del Terzo di San Martino, il Leocorno; il rione occupa uno spazio abbastanza vasto, ma buona parte del suo territorio è in realtà spazio verde, non abitativo, e vedremo poi cosa c’è al suo interno. La contrada si sviluppa praticamente lungo via Pantaneto, la vecchia via Francigena, naturale continuazione di Banchi di Sotto e quindi strada molto trafficata, nonchè pista privilegiata del palio alla lunga del 15 agosto. Nel corso dei secoli è stata nobilitata da palazzi nobiliari molto prestigiosi, anche se il nome potrebbe risalire a quando, non ancora lastricata, si trasformava spesso in un… pantano. Ma andiamo a scoprire quali “perle” si nascondono in questo “fango”.
Le tre cose da vedere nel Leocorno
N°3: Palazzo Sozzini-Malavolti
Fa angolo con via di Follonica, ed è forse uno dei più belli della strada.
Il Palazzo Sozzini-Malavolti datato agli inizi del ‘400, quando fu eretto dalla famiglia Sozzini, o Socini, o Sozini, o Socino che dir si voglia (tutti questi nomi sono ugualmente attestati dai documenti). Si trattava di una famiglia di buone sostanze, che ha dato moltissimi esponenti di spicco all’Università, non solo senese: Mariano il Vecchio, Celso, Mariano il Giovane sono stati giuristi e professori rinomati a Padova, Bologna, Pisa, Venezia.
Ma di sicuro gli esponenti più famosi sono i due “eretici” Lelio (1525-1562) e Fausto Sozzini (1539-1604). Zio e nipote, sono entrambi morti all’estero perché accusati di eresia dall’Inquisizione e messi al bando. D’altronde, quando Mariano il Giovane venne interpellato come giurista in materia di divorzio (e parliamo del divorzio di Enrico VIII da Caterina d’Aragona, che dette origine allo scisma anglicano) lui lo ritenne fattibile a causa di clausole ereditarie. Messo sotto Inquisizione, morì però “riconciliato”.
Non così accadde ai suoi due parenti, ispirati dalle idee anti ecclesiastiche di Bernardino Ochino, altro eretico senese: Lelio aveva viaggiato molto nel Sacro Romano Impero ed era stato accolto a braccia aperte a Ginevra da Calvino, manifestando apertamente la sua aderenza alle nuove idee evangeliche. Poiché i suoi beni in Italia erano stati confiscati dall’Inquisizione, morì in esilio povero in canna. Poco meglio andò al nipote, Fausto, figlio del fratello Alessandro e di Agnese Petrucci, quindi imparentato con Pandolfo e anche con i Todeschini Piccolomini per parte di nonna materna. Dopo molti viaggi all’estero, in genere per curare i proficui affari di famiglia (ma a Ginevra incontrò lo zio e la sua cerchia) tornò in Italia, a Siena, per 12 anni, iscrivendosi anche all’Accademia degli Intronati e insegnando in città.
Malgrado la protezione di Isabella, figlia di Cosimo I Medici (era molto stimato come giurista e studioso), le sue idee, anche in questo caso troppo riformatrici, lo costrinsero alla fuga: prima a Basilea, dove insegnò, poi in Transilvania ed infine in Polonia. Qui diventa, pur non essendo mai battezzato nella nuova religione, il leader indiscusso degli Evangelici Unitariani, gettando le basi per la diffusione massiccia di quella che in Italia era considerata eresia. Nel 1591 fu infatti condannato in contumacia alla pena capitale e alla confisca di tutti i suoi beni, mentre anche in Polonia prendeva di nuovo campo la dottrina cattolica: gli studenti di Cracovia, sobillati dai Gesuiti, devastarono la sua casa, bruciarono i suoi libri in piazza e per poco non lo annegarono nella Vistola, costringendolo alla fuga e ad una morte in disparte.
I suoi insegnamenti hanno però dato origine alla ideologia cosiddetta “sociniana”, basata su una lettura tollerante della Bibbia, che dalla Polonia, tramite la diaspora, si diffuse largamente in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove gli “Unitarians” hanno ancora oggi largo seguito. Il pensiero liberale europeo deve molto a questi due pensatori, il cui nome a Siena fu per secoli invece tabù, e solo con il diffondersi delle nuove dottrine liberali e anticlericali ottocentesche si osò apporre una lapide in loro onore sotto la neonata loggia in piazza Indipendenza (1879), poi spostata sulla facciata laterale di questo palazzo. Ah, il palazzo: come tutti i loro beni venne espropriato e andò alla famiglia Malavolti, e Vinceslao a fine ‘700 provvide a ristrutturare nelle forme attuali, facendo decorare i saloni interni dal pittore neoclassico Luigi Ademollo, mentre Agostino Fantastici a inizio ‘800 edificò le scuderie e rinnovò il giardino, sempre in gusto neoclassico.
N°2: Vicolo degli Orefici
Si tratta chiaramente di un nomen omen, un nome che da subito svela l’anima di questa strada. Sappiamo che qui abitava la consorteria di Ildebrandino Pagliaresi, noto orafo e mercante d’oro. L’arte orafa a Siena nel XIII e XIV secolo raggiunse vette altissime, i gioielli e le oreficerie sacre senesi erano richiesti in tutte le corti europee, compresa quella papale, e lo stile senese, nonché la tecnica dello smalto traslucido, si diffusero ovunque.
Le botteghe di orefici non ci sono più, e la strada oggi si presenta come un lungo cunicolo a fondo chiuso che il Comune aveva abbandonato già a fine ‘800 dandola in uso ai privati. Le case si alzano imponenti rendendola abbastanza buia e dal lastricato spesso scivoloso, ma gli abitanti la tengono benissimo, ed è sempre piena di piante fiorite e panni stesi ad asciugare: una strada viva, non certo la Toscana da cartolina che troviamo in molti siti online. E in fondo a destra, entrando in uno degli ultimi portoni, potreste scoprire che si sbuca direttamente in via Pantaneto, di cui è una parallela: qualcuno dice che il vecchio tracciato della Francigena sia questo, non quello ampio e imponente della strada attuale. Il rione era anche sede della Compagnia militare di Spadaforte, che poi si fuse con quelle di San Giorgio e di Pantaneto dando origine, a metà ‘500, alla contrada del Leocorno. Nella seconda metà del ‘600, in un paio di occasioni, alcuni battilana appartenenti a questa compagnia provarono a iscriverla al Palio, come Contrada di Spadaforte, ma i Provveditori di Biccherna respinsero sempre la richiesta con un laconico “non è cosa” (diciamo così si può interpretare dai documenti, magari loro articolarono meglio la questione…). Non è che gli aspiranti contradaioli la presero molto bene, soprattutto la prima volta, nel 1675, quando a causa dei disordini seguenti alla richiesta il Palio addirittura non si corse.
N°1: Fonte di Follonica
E l’oro va a questa architettura maestosa, che dà il nome anche al giornalino della contrada, e a cui si accede direttamente dal giardino della società. E proprio al Leco dobbiamo la riscoperta e il restauro di una delle fonti più belle e ricche di acqua della città: pareva brutto, dalle finestre della Sala delle Adunanze, vedere quel macchiaio e quelle arcate semisepolte. Per cui grazie al loro interessamento, all’Associazione La Diana e alla Fondazione MPS, dopo un lavoro di recupero lungo e multidisciplinare, adesso possiamo ammirarle in tutta la loro eleganza.
La prima documentazione della Fonte di Follonica risale al 1226, come per altre fonti monumentali senesi, ma si tratta di una fonte vecchia che sarà sostituita poco dopo con la struttura attuale. Si trovava fuori dalla cinta muraria, e vi si accedeva dalla Porta di Follonica, che poi fu chiusa dopo il 1269 per difendersi dalle truppe di Carlo d’Angiò, vittoriose a Colle, e la fonte fu dotata di bicocca, cioè di una piccola fortificazione con corpo di guardia. Il bottino che la alimenta raccoglie le acque della valle, incuneata fra il colle di San Francesco e quello di Santo Spirito, ed è molto ricco, tanto che qui si stabilirono i fullones, cioè i follatori della lana, lavorazione che necessitava di un grande apporto d’acqua. Ma insieme al prezioso liquido spesso dai pendii scendeva anche materiale franoso, e si costruì un muro per frenare il dilavamento. Ciò non fu sufficiente, nel corso di pochi decenni la fonte cominciò ad interrarsi, rendendo difficile il suo uso se non come cisterna per annaffiare gli orti circostanti: nel ‘600 infatti fu costruito in alto un casottino munito di pompa atta a attingere l’acqua dalla platea superiore: le tre bellissime arcate ogivali, erette a bande di laterizio e travertino alternate, erano quasi tutte interrate.
Pandolfo Petrucci, legato al convento domenicano di Santo Spirito, dà loro l’uso esclusivo della fonte, che da inizio ‘500 sparisce dalla cartografia senese; riappare nel 1903 quando il Comune, con un’ingiunzione, blocca i lavori di smantellamento della parte superiore, l’unica ancora visibile, da parte dei privati che all’epoca ne possedevano la proprietà. E qui ritorniamo all’inizio della nostra storia, che poi è anche la fine, quando negli anni ‘70 la Fonte comincia ad essere studiata – a livello geomorfologico, architettonico, strutturale, storico-artistico – in modo tale da procedere ad un restauro il più possibile rispettoso. E così è stato: se vi mettete nell’impresa di scendere la valle non ve ne pentirete, vi accoglie una testimonianza storica superba, e girando lo sguardo il profilo della città vi si svela in scorci inconsueti, bellissimi, chiusi fra Provenzano, Santo Spirito e San Francesco.