Cosa vedere nella contrada di Valdimontone
Come direbbe mio nonno, “caviamoci ‘sto dente”. Ho detto che avrei parlato delle 17 contrade, e fra queste chiaramente c’è anche l’avversaria, la contrada più odiata: per me, per noi del Nicchio, il Montone. O, come sarebbe più corretto dire, il Valdimontone.
Tanto che, nel canonico elenco alfabetico delle contrade, è sempre l’ultima (e tale sempre deve rimanere!) A parte scherzi (ma mica tanto), anche qui il rione offre mille e uno spunti di approfondimento e deliziose chicche nascoste. Infatti, in questa – ripeto – personale classifica del tre MUST SEE, non ci troverete la chiesa di Santa Maria dei Servi, ed il motivo è sempre lo stesso. Le opere più conosciute, le chiese più ricche, i musei più frequentati, quelli li sapete tutti e, se non li sapete, li trovate in ogni normale guida ai MUST SEE della città.
Qui, con Tuscany Planet e giuliatourguide, andiamo alla caccia di nuovi itinerari, per cui gambe in spalla e entriamo di nuovo nel Terzo di San Martino.
Le tre cose da vedere nel Valdimontone
N°3: Chiesa di Santa Maria degli Angeli detta il Santuccio
Il bronzo va a questa chiesa gemella di San Raimondo al Refugio (nel Nicchio, vi ricordate? 200 metri da qui), riammodernata negli stessi anni e con la stessa uniformità decorativa. Dovrebbe stare sempre aperta perché è bellissima, ma lo è solo su prenotazione a cura della Soprintendenza di Siena.
Qui siamo praticamente all’interno di un altro convento, la cui ala nord ora è occupata dall’Istituto Caselli; era un convento di monache agostiniane intitolato a Santa Maria degli Angeli, fondato nel XIV secolo. Nel 1557 grazie all’iniziativa del nobile Annibale Bichi, architetto dilettante, la chiesa fu rinnovata: lui progetta e finanzia il rifacimento della facciata in stile vagamente peruzziano.
Qui nel 1552 arriva la reliquia della testa di San Galgano Guidotti dal vicino convento cistercense della Maddalena – ne parleremo fra poco – e l’evento merita un rifacimento anche della decorazione interna che viene destinata alle Storie della vita del Santo, in sei episodi ad affresco di Ventura Salimbeni, eseguiti nel 1610-13. Il Salimbeni, insieme ad altri artisti senesi di fine ‘500, realizza altre opere, alcune con temi legati alla musica: le monache avevano una predilezione per quest’arte. Loro vivevano di elemosina e coltivavano i bachi da seta e la vite, ricevevano molte doti perché in genere accoglievano fanciulle di buona famiglia.
Con le soppressioni leopoldine il convento non fu chiuso ma anzi accolse le monache provenienti da quelli circostanti, fino a che poi non furono spostate e infine a inizi ‘900 divenne una scuola. Si chiamava familiarmente “Santuccio” per le cospicue donazioni che riceveva dalla famiglia Santucci, ma anche perché ospitava la reliquia di questo santo minuto e mingherlino, un “santuccio” insomma. La testa del Santo è stata qui fino al 1977, adesso si trova a Monticiano nel Museo a lui dedicato nella sua casa natale.
Due particolarità: la sagrestia ha un altare speculare a quello principale, così le monache potevano assistere alle funzioni senza violare la loro stretta clausura. Inoltre, c’è un organo, rarissimo, che si può suonare da entrambi i lati, lato chiesa o lato sagrestia, e anche contemporaneamente: vedete che il tema musicale ritorna.
Bisogna anche ricordare il fatto che qui davanti partiva il Palio “alla lunga” che finiva poi in Piazza Postierla (nell’Aquila) o davanti al Duomo, ed infatti in terra si vede una pietra quadrata a segnare dove veniva montato il verrocchio per tendere i canapi.
N°2: Palazzo di San Galgano
Medaglia d’argento al bellissimo Palazzo di San Galgano, dove ho seguito corsi su corsi: adesso infatti appartiene all’Università di Siena, ma è stato costruito per volere dei monaci Cistercensi di San Galgano, che avevano davanti il loro convento, ora distrutto, come base operativa in città. Scelsero una pietra serena dalle sfumature dorate, e forme e bugnato da pieno Rinascimento fiorentino, tanto che si dice che l’architettura sia di mano del Rossellino o di Giuliano da Sangallo, ma sono voci senza fondamento.
Siamo nel 1474, ed il palazzo non verrà mai terminato: l’abbazia stava andando in decadenza, e i monaci dovettero presto venderlo a privati. Sicuramente originali sono gli anelli con la spada conficcata nel terreno e la testa di San Galgano. Ecco, la testa in effetti era conservata qui, fra il monastero e il palazzo, in un prezioso reliquiario del ‘300 che ora si trova al Museo dell’Opera del Duomo.
Abbiamo detto che nel 1552-55 la reliquia passò alla chiesa del Santuccio, ma perché? Tradizione vuole che un viandante durante l’assedio della Guerra di Siena bussasse una notte chiedendo asilo, e lasciasse come regalo questa reliquia, che era miracolosa: era una testa bellissima, dove i capelli crescevano di continuo e la pelle sudava, così le monache potevano vendere ciocche bionde e fazzolettini imbevuti di sudore del Santo che venivano messi sulla testa in caso di dolore e emicranie. In realtà a quelle date i monaci abbandonarono anche il monastero, che divenne un convento femminile intitolato a Santa Maria Maddalena, ma decisero di lasciare la testa del Santo a Siena, posto più sicuro della Val di Merse, e essendo sotto assedio, anche bisognoso di protezione.
N°1: Ex Ospedale di San Niccolò
Mi rendo conto adesso che vi sto facendo fare “le vasche” per via Roma, visto che tutti e tre i MUST SEE si trovano qui. Torniamo quindi indietro per visitare la struttura mastodontica del San Niccolò. Qui, manco a dirlo, c’era un convento, di clarisse francescane consacrato a questo santo e fondato nel ‘300, con orti e terreni. Il Governo Granducale a fine ‘700 decise di dedicare questo luogo al ricovero dei “pazzerelli”: già nel 1762 era stato istituito uno spedale in una casa del Santa Maria della Scala vicino a Porta San Marco, e dopo vari passaggi viene “accollato” alla Società di Pie Disposizioni, confraternita e poi ente assistenziale senese fra i più floridi (perché ieri come oggi beneficiario di molte e cospicue donazioni) e infine sistemato qui nel 1815.
Nel 1818 si inaugura il Manicomio, con 34 pazienti, a cui si aggiungono gli “affetti da malattia del capillizio e della pelle” (leggi i tignosi) e le “donne che illecito amore aveva reso madri”, anche se in seguito loro avranno grazie al direttore Livi sezioni e padiglioni separati. Alla direzione sanitaria si succedettero medici illuminati: da subito furono abolite le catene e fu introdotto parzialmente il lavoro agricolo, nonché la necessità di una dieta equilibrata e l’uso dell’idroterapia (no, non le docce gelate, ma calmanti bagni caldi). Fu però Carlo Livi che dal 1858 portò avanti l’avveniristica concezione che la malattia mentale si può curare attraverso l’utilizzo della cura morale e del lavoro: le condizioni dovevano essere le più vicine possibili a quelle della vita ordinaria, basate quindi su rapporti di fiducia, collaborazione, interazione sociale e soprattutto lavoro: se la condizione psichiatrica lo consentiva ad ogni paziente era attribuita una mansione.
Questa impostazione rese necessaria la costruzione di una nuova struttura, con un centro logistico (l’attuale Facoltà di Ingegneria) e un villaggio manicomiale diffuso, diviso in padiglioni. L’architetto Francesco Azzurri, già progettista del Manicomio di Roma, ci lavorò fino al 1870 creando un grandioso palazzo, quasi una villa signorile, proprio per togliere qualsiasi apparenza di ospedale/carcere e di “asilo di alienati”. Qui stavano tutti i malati esclusi i soli “agitati” ed i “rettanti”, che avevano padiglioni a parte, così come ne avevano uno i “clamorosi”, diviso in zona maschile e femminile. Da lì a fine secolo si costituirà il villaggio agricolo nell’Orto de’ Pecci, saranno costruiti la nuova lavanderia, la centrale elettrica, il molino, le botteghe artigiane, la farmacia in stile pompeiano, creando una città nella città, autonoma, fonte di reddito anche per molti “sani”.
Dopo la legge Basaglia è stato progressivamente smantellato per essere chiuso definitivamente nel 1999 e parzialmente occupato dall’Università. Ma molti padiglioni sono chiusi in attesa di destinazione, fra cui il bellissimo Padiglione Connolly (che è censito ne “I Luoghi del Cuore” del FAI, votatelo!), e avrebbero bisogno di restauro anche i meravigliosi cartelli stradali che indicavano i nomi delle strade interne: una vera e propria città nella città.