Cosa vedere nella nobile contrada del Bruco a Siena
Eccoci qua con il terzo appuntamento per parlare delle ricchezze, più o meno nascoste, della nostra città e dei nostri rioni. Da poco finita la festa titolare, baciata dalla sorte perchè estratta per ultima a correre la carriera di agosto, qualcuno di voi avrà già capito che parliamo del Bruco. Forse la prima attestazione documentaria di un quartiere di Siena associato ad un nome di contrada si ha proprio riferita al Bruco, nel 1366, nel Libro della Lira, dove con questo nome si identifica la zona pianeggiante presso la Porta cittadina.
Questo nome, in un territorio legato all’allevamento di pecore e animali da pascolo (Porta Ovile…), a volte viene collegato all’atto del brucare, ma una delle memorie storiche del rione, che ringrazio per la collaborazione, a questa ipotesi risponde testuali parole: “Ma di ‘he!”, liquidando così la teoria del prof. Catoni. Secondo lui il nome deriva dal fatto che i terreni in pendio, le coste, erano di proprietà della potente abbazia vallombrosana posta in cima alla collina, di cui parleremo fra poco, e venivano assegnati alle povere famiglie del rione che, per ricavarci qualcosa di velocemente commestibile e vendibile, le coltivavano a cavoli. Questi erano chiaramente infestati da bruchi, ed infatti l’attuale via degli Orti si chiamava, prima, Costa dei Bruchi.
Le tre cose da vedere nel Bruco
Ma tant’è, anche questa volta stiliamo la nostra classifica dei MUST DO, ed in rigoroso ordine di podio.
N°3: Chiesa di San Michele in San Donato all’Abbadia
In pratica è più lunga l’intitolazione della chiesa di quanto sia grande l’edificio: la storia è complessa, e purtroppo non corrisponde quasi più a quanto visibile oggi, per questo le diamo la medaglia di bronzo. Ma andiamo con ordine.
Qui, appena fuori dal castellare dei Salimbeni – che era connesso con questa piazzetta da un passaggio aperto per i carri, che avevano qui la dogana delle merci – era l’abbazia dei Vallombrosani, detta anche Abbadia Vecchia, intitolata a San Michele Arcangelo. Quella Nuova fu fondata anni dopo presso Porta Pispini, nel territorio del Nicchio che ancora oggi chiama le sue due compagnie “Abbadia Nuova di Sopra” e Abbadia Nuova di Sotto”.
In realtà la chiesa con annesso monastero fu probabilmente fondata nel XII secolo grazie alla donazione di un principe longobardo, e,consacrata nel 1147, passò quasi subito all’ordine fondato da San Giovanni Gualberto. I vallombrosani rimasero fino al 1565, quando Cosimo I assegnò il complesso all’Ordine cavalleresco di Santo Stefano da lui fondato pochi anni prima, ed il loro stemma è ancora visibile ai lati del rosone.
Nel 1682 il complesso fu dato ai Padri Carmelitani Scalzi che nel 1691 lo riammodernarono in stile barocco, come si può vedere anche adesso all’interno, modificato da pianta ad aula unica a pianta a croce latina, e adornato di passabili tele settecentesche.
Quando nel 1816 la vecchia chiesa di San Donato fu sconsacrata e fu inglobata nel palazzo Tantucci, divenendo un fondo commerciale, il titolo e la funzione di chiesa parrocchiale passarono a questo edificio. San Donato fu poi “riscoperta” nelle sue forme romaniche dall’architetto Pierluigi Spadolini durante i restauri per il cinquecentenario della Banca Monte dei Paschi, ed oggi è un bellissimo contenitore di opere d’arte medievali della collezione MPS.
Invece la nostra chiesetta dell’Abbadia subì durante la Seconda Guerra Mondiale un classico restauro “di ripristino” nella facciata che ha cancellato quella settecentesca ed ha ricreato un aspetto neomedievale, con la parte inferiore in pietra da torre, quella superiore in laterizio, un rosone centrale a ruota di carro, tetto a capanna e archetti pensili (a me ricorda vagamente San Francesco, anche decenni dopo l’architetto Partini faceva decisamente scuola). L’unica parte originale rimane probabilmente il tiburio, ben visibile dal MUST DO n.1, tra l’altro, e da poche altre parti.
N°2: Palazzo Spannocchi
Non si esagera se si afferma che questo è probabilmente uno dei palazzi più belli di Siena. Anche adesso che si presenta parzialmente stravolto dopo il restauro conservativo di, ancora lui, Giuseppe Partini. La forma comunque nasce e resta pienamente rinascimentale, e a pochi anni di distanza da Palazzo Piccolomini Siena accoglie un altro architetto fiorentino, Giuliano da Maiano, che nel 1473, su commissione di Ambrogio Spannocchi, viene a Siena sia per realizzare la dimora familiare sia per adornare con un altare marmoreo, insieme al fratello Benedetto, la cappella di famiglia in San Domenico, cioè l’altare maggiore. Giuliano sviluppa anche qui il tema del palazzo nobiliare come quadrilatero, insieme altero ma riccamente decorato, con una corte centrale ed arricchito da un giardino pensile sul lato a sinistra dell’ingresso centrale chiaramente aperto sulla via principale, la Francigena.
Ambrogio di Nanni Spannocchi, banchiere senese, aveva forti contatti con la famiglia dei Medici e con la piazza fiorentina, e difatti è a Firenze che va a scegliere il suo architetto, tra l’altro uno dei più richiesti del momento. Inoltre, divenne Depositario della Camera Papale – cioè tesoriere – sotto Pio II, che lo associò anche alla Consorteria Piccolomini, per cui poté fregiarsi del titolo e dell’arme di famiglia; d’altro canto, grazie all’aiuto del Banco Spannocchi il Papa senese poté trasformare il brutto anatroccolo Corsignano nel cigno Pienza.
Ambrogio riuscì ben presto ad accumulare un’ingente fortuna ed inoltre era in contatto costante colle novità artistiche più recenti, compresa la moda antiquaria che da lì a pochi anni dilagherà fino ai parossismi del ‘500. Infatti nel suo palazzo, oltre agli stilemi rinascimentali quali il bugnato liscio, che rende il palazzo davvero elegante, le rosette, gli ovuli e dentelli delle cornici, proprio al di sotto dello spiovente del tetto Ambrogio ha fatto inserire diciotto teste di imperatori romani, che poi saranno ripresi, nello stesso torno di anni, nella decorazione della navata centrale del Duomo di Santa Maria Assunta realizzata per volere del rettore Alberto Aringhieri. Anzi, ad essere precisi abbiamo 17 imperatori e, quinto da sinistra, troviamo la testa dello stesso Ambrogio, in una palese ostentazione di umiltà.
Il Partini, durante la ristrutturazione di palazzo Salimbeni e dello spazio antistante, decise di abbattere il muro che chiudeva il giardino pensile e creare, invece di un angusto vicolo, una ariosa piazza, e dette alla facciata nord lo stesso aspetto di quella principale. Però, al posto delle anonime rosette inserite nelle vele fra le due aperture delle bifore a tutto sesto l’architetto senese inserisce a volte il logo del Monte dei Paschi, mentre sotto la gronda allunga la teoria delle teste ma declinandole secondo la logica, allora imperante, di valorizzazione delle maggiori personalità italiane (si riconoscono infatti Dante e Leonardo): quasi un pantheon senese di italiche glorie come, negli stessi anni, accadeva a Firenze capitale in Santa Croce.
Anche gli interni sono stati più volte stravolti, il pianterreno ha ospitato per qualche anno anche le Regie Poste, poi con l’acquisizione da parte del Monte dei Paschi il cortile interno, ancora apprezzabile nella sua rinascimentale purezza, è diventato il front office della sede centrale, e luogo d’incontro dei senesi quasi come Piazza del Campo o il Conca d’Oro.
N°1: Vicolo degli Orbachi
Una vera e propria chicca, un nome (da “orbaco”, cioè “bacca d’oro”, il frutto dell’alloro, all’epoca presente con diversi alberelli su questa piaggia) che diventa un destino e riunisce due porzioni di via praticamente agli antipodi, entrambi ugualmente caratteristiche della nostra città.
Nello stradario del 1789 si parla proprio di “vicolo degli Orbachi di Sotto” e “Vicolo degli Orbachi di Sopra”, dandogli quasi la stessa dignità delle centralissime Banchi di Sopra e Banchi di Sotto.
Partendo da “Sopra”, questa porzione era anche detta Chiasso Buio perchè molto stretta, coperta con una volta a botte nella parte iniziale, quasi affossata fra le alte case, e già nel 1309 considerata malfamata e pericolosa. Si cerca di allargarla parzialmente, di mattonarla, ma con scarsi risultati, tanto che per alcuni anni viene addirittura interdetto al passeggio. Con i lavori di rifacimento del convento dell’Abbadia, sotto i Carmelitani Scalzi, il vicolo viene chiuso nella parte finale e tale è rimasto fino ad oggi, mentre inizialmente sbucava proprio in piazza dell’Abbadia.
La parte “Sotto” invece è un altro mondo.
All’inizio troviamo la stalla della Contrada, ed infatti questa zona viene trasennata nei giorni del Palio (il cavallo, per arrivare a casa, ha addirittura un’apposita rampa che gli evita i bassi scalini presenti). Subito dopo, mentre sulla sinistra si sviluppano alcune casette decorate da vasi di fiori, a sinistra il panorama si apre sulla valle di Ravacciano e si spinge fino alla collina dell’Osservanza, scoprendo uno spaccato di campagna, come spesso capita a Siena, a ridosso delle mura cittadine. Infatti il vicoletto si allarga in tre quattro rivoli di stradelle ghiaiose, che scendono nel piccolo giardino alberato: un incanto nella bella stagione, ed un porto tranquillo nelle tiepide giornate invernali; essendo il vicolo a pieno solatio le panchine diventano sotto il sole di gennaio una validissima alternativa al chiuso dei bar, ve lo dico per esperienza diretta.
Sul giardinetto affacciano – fortunate! – alcune delle case che hanno la facciata principale su via Vallerozzi, quindi dobbiamo ammettere che tanto “giardinetto” non è, si tratta anzi di una bella porzione di orto giardino, con alberi da frutto, roseti e arbusti profumati; non possiamo non ringraziare i contradaioli del Bruco che da almeno dieci anni si sono presi l’impegno con il Comune e la cittadinanza di curare questo angolo di paradiso in pieno centro, per me la perla più preziosa nel collier del Rione.